martedì 29 dicembre 2015

13 Possiedi la tua Cultura!


In sintesi, convincersi di essere sulla soglia dell’Era del SuperUomo, in grado di generare super-abilità - che a loro volta sono poi causa di instabilità, depressione, disuguaglianze - assomiglia un po’ ai miti del super-ego di altri tempi. Mi pare una modernità zoppa quella che non fa altro che concentrarsi sui primissimi in gara senza curarsi di come la stessa modernità e progresso non siano nocivi invece che supportivi per gli ultimi della fila. Non si vede ancora un possente slancio verso la democratizzazione di tanti benefici, verso il riempimento di quelle falle chiamate digital divide che ancora separano nettamente le capacità di una piccola frazione del pianeta da quelle della maggioranza. Ciò che sta accadendo non lo si potrà chiamare Progresso della Razza Umana, finché, appunto, i suoi crismi e soprattutto i suoi vantaggi non saranno redistribuiti su tutta la popolazione umana, ma questo forse è un discorso vecchio, da immigrato digitale!
Io stesso tempo fa per dare una ripassata veloce ai numeri Complessi, ho usato la pagina FaceBook di un grosso gruppo sulla Matematica, e seguendo un paio di thread su esercizi contenenti numeri Complessi ho ricapitolato tutto in poco tempo. Molto efficace, perché la forma dialogica mi ha portato a ripercorrere in modo velocissimo i miei stessi dubbi e ricordi smangiucchiati della teoria di C.
Il Recupero e la Ricostruzione Didattica vengono agevolati, velocizzati e ottimizzati, ma non potranno mai sostituire la mia conoscenza di base sulla teoria che precede i numeri C, e che mi permette di ricostruire velocemente! E' ovvio, se si parla di intuizioni numeriche di base, di subitizing, bastano due paroline messe bene e il concetto è bell'e ricostruito. Esempio: girano molti video su youtube di ragazzi che spiegano ad altri ragazzi, con linguaggi quanto più possibili semplificati e adattati, principi e teoremi di matematica, anche discretamente complicati. Va benissimo, finché però questo tipo di ricostruzione, e di "filologia" dura un tempo ristretto, necessario appunto a "ricostruire" qualcosa che invece in passato è stato, appunto, "costruito", con calma ed attenzione, grazie a un insegnamento che sia stato a suo tempo condiviso, ben compreso e assimilato.
Alzo invece un forte allarme se e quando diventa centrale questo tema della didattica 2.0, dell'alleggerimento come "traduzione nella lingua dei nativi digitali", dell'affastellamento di semplificazioni necessarie poi in sostanza a "sbarcare il lunario" intendendo con questo il minimo esercizio quotidiano richiesto a scuola (di cui si può proiettare l'immagine futura di un impiegato che per risolvere un problema che dovrebbe essere in grado comunque di risolvere da solo si affida con superficiale automaticità alle tecnologie guadagnando sicuramente tempo ma perdendo la possibilità di personalizzazione, e di sicuro spendendo molto di più in termini energetici).
Mi pare triste oltre che dannoso quando questi affanni diventano essi stesso l'inizio e la fine del percorso educativo, o quando diventano addirittura parametri da misurare per comprendere il livello qualitativo di un insegnante o di una scuola, o ancora quando si tramutano in appelli e slogan politici.
Affanni che diventano il cruccio dell'insegnante, che così semplificando si sente di sicuro molto 2.0, ma si auto-esclude egli stesso dalla possibilità di lavorare con più soddisfazione, su un rapporto educativo più profondo e costruttivo, che nel tempo vada a migliorare perché la Scuola sia in grado di svolgere la sua funzione - Migliorare - anche sugli insegnanti.
Affanni per gli allievi, che forse hanno oggi un'impressione di "facilità" e di "fattibilità" dell'impegno scolastico che non ha nulla di negativo in sé, ma che in fondo non li aiuta davvero a svilupparsi in un percorso comunque più dialogato con la scuola e con i docenti, non li prepara davvero e non li facilita quando li lancia nel mondo con piccolissime, se non inesistenti, ali per volare.
Certo, posso “migliorare”, ad esempio, il mio insegnamento della Matematica perché grazie alle NT ho anch’io un laboratorio, che prima poteva essere composto solo di quaderno e penna e al massimo di qualche invenzione con carta, forbici e costruzioni, e oggi invece è un vero e proprio tavolo di lavoro giustamente “virtuale” come lo sono le idee della teoria scientifica. E dunque un ragazzo oggi può davvero lavorare con un triangolo, muoverlo nello spazio e valutare come la teoria prende forma, ma tutto ciò non prescinde e non modifica i miei racconti su “come” l’uomo ha incontrato la forma “triangolo”, e che percorso lungo e travagliato sia la teorizzazione, la dimostrazione e la conseguente applicazione di un principio geometrico. Non si potrà avere una forma migliore per ascoltare “L’infinito” di Leopardi che non sia la voce esperta di un appassionato professore di Lettere. Né mi aiutano un granché le tecnologie a spiegare i motivi di una guerra o la storia di una religione. Certo che dovrò veicolarle attraverso i veicoli più consoni agli allievi che ho di fronte, ma qual è la novità in questo? E non è importante mantenere distaccati gli insegnamenti SULLE nuove tecnologie dagli insegnamenti CON le nuove tecnologie?
E’ senz’altro indispensabile mantenere in tutte le scuole un nucleo di insegnamenti tecnici sulle nuove competenze digitali, e conservare l’identità e l’integrità delle “altre” discipline che ovviamente hanno tutto da guadagare dall’applicazione intelligente dei nuovi supporti. Se non è possibile escludere la scuola e i suoi attori dall’uniformazione e “militarizzazione” richieste dalle nuove dinamiche economiche, che resti quantomeno lecito mantenere quello che ci hanno invidiato per tanti anni gli statunitensi, cioè un generalismo culturale – inteso nell’accezione più alta del termine - che funga da sostrato a qualunque spinta ulteriore giunga all’allievo. Ancora Franco de Anna: “Se si vuole mantenere la distinzione-indipendenza tra formazione e condizionamenti economico-produttivi il problema da affrontare non consente il semplice rifugio in un supposto “primato umanistico” ma si proietta in una capacità di immaginare e ricostruire una dimensione “onnivalente” dell’uomo”.

12 Gli Sdraiati Digitali, iperveloci nel cyberspazio, immobili nel mondo reale


Per avviarmi a una conclusione, vorrei ricordare che un uomo nuovo serve a poco senza un mondo nuovo. Ricordo con molto affetto mio padre che mi comprò – senza averne alcuna idea – un piccolo Vic20 nel 1983, consegnandomi in quel momento la chiave d’oro che avrebbe accompagnato ogni mio impiego, ogni mia attività da quel lontano 1983. Ciononostante, la cronica sindrome nefrosica che mi astia da una decina di anni è stata probabilmente causata anche da un ritmo di vita in gioventù molto poco “tradizionale”, preferendo spesso il computer alla partita di pallone, o un libro a una passeggiata con gli amici. Sono per questo diventato migliore? O peggiore? Che opportunità ho perso, e quali invece mi sono state offerte su un piatto d’argento?
Proverò ad essere ancora più chiaro: la mia preoccupazione sulla prossima generazione di “iperconnessi” è cosa si connettono a fare? Non mi interessa assolutamente la disumanizzazione in termini di rapporto mediatico, o la spersonalizzazione dovuta all’eccessiva liquidità del social-space. Non sono terrorizzato dal fatto che le macchine possano soppiantare l’uomo, né che un giorno si possano ribellare straziando le carni dell’umano oppressore. Non mi fa orrore (come invece atterrisce mia madre!) l’idea di ordinare una pizza e vedersela recapitare da un drone, magari mentre sto sdraiato venti ore al giorno in una sorta di Cocoon dal quale posso lavorare, divertirmi, interagire col mondo, comandare un’astronave, tutto senza muovere più di due-tre muscoli, trasformandomi in quello che probabilmente sarà l’uomo del XXII secolo, obeso, muscolarmente inetto, iperconnesso in qualsiasi momento, potenzialmente ubiquo, probabilmente molto spesso annoiato, più di oggi.
A me preoccupa che con tanta comodità e tecnologia, quell’Uomo2.0 spenda qualche minuto - più di oggi! - ad occuparsi dei suoi simili, o della condizione della natura che lo circonda, o dei problemi dei più deboli. Che attraverso tanti collegamenti quell’Uomo2.0 sia più informato di oggi, meno passivo rispetto alla massificazione dell’informazione, più attento e più critico, magari più incline alla solidarietà e alla pace che alla contrapposizione e alla guerra, più attento alla vita sociale e politica, e magari in grado di apportare qualcosa in più al dibattito sociale di quanto accada oggi. Ecco perché rifuggo le visioni di Prensky o di Jenkins, e non vedo nessun vantaggio per l’Umanità, mentre ne vedo tanti per l’Economia, nel fatto che i ragazzi di oggi acquisiscano tante belle nuove abilità e capacità di cui però nessuna sembra far rima con “solidarietà”, “sostenibilità”, “profondità”.
Propongo qui un interessantissimo quanto drammatico passaggio di Arturo Marcello Allega in “Analfabetismo: il punto di non ritorno” (Herald Ed. 2011), sull’effettiva portata del fenomeno in termini di alfabetismo e di istruzione:
Considerando la popolazione “non istruita” o “dealfabetizzata” come costituita da tutti coloro che non hanno completato l’obbligo scolastico (fissato entro il 16° anno di età) o che nel tempo hanno perso la propria istruzione sostanziale a causa delle diverse forme di analfabetismo di ritorno, calcoliamo la velocità di crescita di questa popolazione rispetto a quella degli “istruiti”, dal 1951 ai nostri giorni. I dati mostrano che i “non istruiti” crescono con una velocità sempre più elevata mentre gli “istruiti” crescono fino al 2001, dove invertono la loro velocità. Nel 2006 i “non istruiti” superano gli “istruiti” e i numeri lasciano sperare ben poco per questi ultimi.
(…) i dati OCSE puliti, cioè senza filtro alcuno, portavano a un 47% di “non istruiti” e al 57% degli “istruiti” nel 2011. Con il filtro prodotto dal processo di dealfabetizzazione, abbiamo visto nell’articolo “Darwin, Pareto e i dati Ocse sull’istruzione” che nel 2011 i dati si stabilizzano intorno al 66% per i primi e al 34% per i secondi, come già annunciato da Tullio De Mauro in diverse proiezioni anticipate in interviste sull’argomento. Con il calcolo delle velocità qui riportato, lo scenario di Pareto sembra scontato e inevitabile: i “non istruiti” tenderanno nel prossimo futuro all’80% e gli “istruiti” al 20%. (…) assistiamo alla comparsa di un punto di non ritorno, oltre il quale la popolazione dei “non istruiti” è destinata a costituire la maggioranza assoluta della popolazione. Positivo? Negativo? La destrutturazione dei linguaggi storici è involuzione? La moltiplicazione delle diversità (anche dei linguaggi) è foriera di innovazione, di ricchezza culturale o l’avvio di una nuova Babele? Gli “istruiti” saranno i nuovi esclusi, i nuovi dropped out?


11 I migliori saranno super-eccellenti, i peggiori super-inabili?


Abbiamo parlato fin qui di scuola e scolari tralasciando di annotare quanto la nuova era digitale stia tracciando un solco sempre meno sanabile fra chi è “in” e chi è “out”. Riprendo un passo di Prensky (riferito alle tecniche di apprendimento online): ”Tra le importanti abilità che hanno dimostrato di sviluppare ci sono la collaborazione e il lavoro in team, l’adozione di decisioni efficaci sotto stress, l’assunzione di rischi nel perseguimento degli obiettivi, l’assunzione di decisioni etiche e morali, l’impiego della deduzione scientifica, la veloce padronanza e applicazione di nuove abilità e informazioni, il pensiero laterale e strategico, la perseveranza nel risolvere i problemi difficoltosi, la comprensione e la gestione di culture e ambienti estranei, e l’amminsitrazione di aziende e persone”. Wow, praticamente dei soldati pronti per le continue Guerre Commerciali che siamo costretti a subire.
Il gaming è fantastico come modalità di apprendimento, specialmente per discipline scientifiche, ma cosa c’entra con l’istruzione e l’educazione? Il gioco non è una cosetta da niente, è la metodologia che l’uomo applica ogni volta che (aridaje) c’è da vincere! Non posso che aborrire questa visione molto americana della necessità di eccellere, di vincere, di sbaragliare e di essere superiori. Può essere legittimo decidere di formare dei cittadini più Vincenti (ci hanno provato in tanti!), ma questo non ha nulla ha che vedere col più umile, ma al contempo più critico, compito di creare semplicemente Cittadini.
Bisogna stare molto attenti a credere che un ragazzo che oggi ha 16 anni, fra 20 o 30 anni sarà un possibile buon attore della società iperdigitale solo perché oggi spippola a velocità folle sul suo palmare intrecciando rapporti con mezzo mondo anche solo per risolvere un’equazione. Essere “super utenti” di social network non equivale ad essere un genio del computer; spesso i miei alunni ammettono, e ci sono fiori di studi a confermarlo, che per loro “Internet è Facebook”, e che molto raramente si addentrano davvero nel web con spontanea curiosità in terreni non così comodi e battuti come i social network di tendenza. Si parla qui di ampiezza d’uso delle NT, di reale livello di expertise applicato attivamente alle proprie curiosità, alle proprie passioni e ai propri compiti. Un futuro di spippolatori iperconnessi non è esattamente una visione rosea, e di nuovo pone l’attenzione sull’ampiezza e la profondità che i ragazzi del futuro avranno imparato a gestire da piccoli a scuola. Oggi.

10 2040: il mondo dei Bimbiminkia


Cosa succederà? Inutile arrovellarsi, nessuno lo sa. Per questo insisto che non si debbano creare per forza dei cyber-insegnanti capaci di tradurre il mondo “arcaico” ai nativi digitali, perché tanto i nativi esploreranno il mondo a modo loro, anche se – affermo io – lo faranno meglio se avranno una minima idea della storiografia umana che li ha preceduti, le arti manuali, la filosofia, la letteratura, il calcolo e tutto il resto.
Visto che di scenari fantasmagorici ne abbiamo disponibili a iosa (cito l’ultimo, la pizza ordinata su internet e trasportata direttamente nelle tue mani da un drone), e visto che, come ho già detto, in Europa siamo molto meno terroristici e diffidenti di quanto lo siano gli americani riguardo gli inumani sviluppi delle NT, qualche voce “europea ma ombrosa” la cito volentieri: Donald Sassoon (The culture of the Europeans from 1800 to the present. HarperCollins, 2006) dice che “più libertà e più scelta per il consumatore potrebbe significare che ogni gruppo si concentrerà solo su quello che preferisce, e sperimenterà meno. Il villaggio globale può essere balcanizzato”. Marino Sinibaldi: “Che conoscenza genera, che relazioni crea (la rete)? Non c’è il rischio che l’altro, nella infinitezza delle possibilità di raggiungerlo, appaia in realtà distante e astratto, intimamente estraneo? Questo spiegherebbe il linguaggio dei social network, le sue fragilità emotive, le tentazioni aggressive”.

E dunque, che mondo stiamo costruendo per i futuri adulti del 2040? E che basi stanno essi stesso gettando per creare un mondo più unito e connesso, dotato di un nuovo senso mondialista, dando nuovo significato al termine, anzi nuovi significati. Che rete stanno davvero gettando i nostri ragazzi verso gli altri e verso l’altro in generale, quando l’unico oggetto, sorgente e obiettivo di ogni circuito “social” è – invece che un semplice “noi” – un categorico “io”? Henry Jenkins (Learning in a participatory culture, Guerini 2009) trova addirittura undici nuove abilità che emergerebbero dalla nuova era digitale: Gioco, Simulazione, Performance, Appropriazione, Multitasking, Conoscenza distribuita, Intelligenza collettiva, Giudizio, Navigazione Transmedia, Networking, Negoziazione. Non so perché ma mi continuano a suonare come sub-categorie della grande madre Produzione, e continuo a pensare che sia esimio compito della Scuola inglobare queste supposte nuove abilità proprio in quel percorso di crescita umana che ci ha portato alle stupefacenze tecnologiche di oggi, delegando loro il giusto posto in mezzo alle infinite altre abilità e sensibilità dell’uomo.

Niente ci dice che il futuro sarà così buono con i ragazzi di oggi da permettere loro di trovarsi un’oretta la sera per leggere un libro, o per fare una chiacchierata faccia a faccia con un amico, e tutto mi sembra invece suggerire di mantenere una natura che sia storicamente nostra (“stay human”), perché con essa sarà più facile e produttivo (sic!) affrontare le infinite sfide che il progresso ha ormai chiaramente in serbo per noi, ivi comprese le squassanti crisi che continueranno a imperversare negli ipermondi virtuali finanziari (sottesi ai quali resterà sempre il nostro ipo-mondo materiale dove la vita reale – mangiare, sopravvivere, curarsi – sbiadirà come una routine sempre più noiosa).


Quali speranze? Quelle che derivano dall’incomprimibilità delle giovani menti, per parafrasare un celebre principio fisico. Quando vedo ragazzi di 16-18 anni che tendono al vegetarianesimo e si interessano al mondo vegan (sicuramente un po’ per moda) perché non sopportano più la fettina di carne messa a tavola ogni sera da una analogicamente premurosa mamma, penso che la scintilla sia sempre la stessa: spingersi oltre, allontanarsi dal qui per cercare il lì, e guardare da lì quello che qui non va. Ripongo molta fiducia in questo innato senso dell’esplorazione, che di sicuro genererà gioielli di pensiero e di creatività che oggi non riusciamo neanche a immaginare; ahimé molta di meno ne ripongo negli schemi essenzialmente politici che senza curarsi di altro se non della propria sussistenza lottano ogni giorno per ingabbiare quell’esplorazione, per dirigere tanta energia e tanta spinta sempre e solo nella direzione che gli conviene di più, l’uniformazione del Consumo, la creazione di un Mondialismo Commerciale, la venerazione del Progresso Industriale.
Buttare via il giocattolo che non si sa o non si vuole usare, per inseguirne un altro. Mi sembra questo l’afflato che muove l’isterismo modernista di questi anni. Potrà questa rivoluzione risollevare i dati drammatici sulla fruizione di materiali culturali? Da una ricerca di Eurobarometro del 2013 risulta che solo il 6% degli italiani ha qualche pratica di uno strumento musicale, addirittura due punti sotto la media europea, e che l’80% degli italiani dichiara di non partecipare ad alcuna attività culturale, una percentuale superiore per decine di punti a quella di tutti gli altri Paesi membri a eccezione solo di Ungheria, Romania, Portogallo e Cipro. Sono questi i numeri da risistemare, e per farlo non servono particolari tecnologie o speciali metodi, anzi. E non ho motivo di credere che una “diversa didattica per ragazzi diversi” possa risollevare questa incresciosa situazione, anzi temo che l’isolamento, la parcellizzazione e il “digital divide” saranno i temi portanti dei prossimi anni, con una ulteriore semplificazione generalizzata delle offerte culturali e formative, buone un po’ per tutti i gusti.

09 La scuola è una grande conquista o deve attrarre clienti?


Mi permetto quindi una domanda: nessuno intende tornare ai tempi dei fagioli sotto le ginocchia o delle bacchettate sui palmi aperti, ma mi si può spiegare per quale motivo, inseguendo la decadenza, bisogna semplificare, rendere attraente, infiorettare, facilitare, addolcire i programmi con giochi, e-books, colori attraenti e lucine luminose? Perché è questa la modernizzazione che non posso appoggiare, quando essa si presenta come il genitore questuante: “Lo so che mio figlio ha preso tre, ma non c’è proprio modo di promuoverlo?”, o come il libro a figure enormi per essere più attrattivo.

Lo dico insieme a Marino Sinibaldi, attento osservatore della realtà moderna, oggi direttore di Rai Radio3 (Un millimetro più in là, Laterza 2014): “Il libro sviluppa in una forma molto peculiare due straordinari processi umani: l’immaginazione e l’immedesimazione. Faccio fatica a trovare forme di rapporto con la realtà che abbiano la stessa capacità della lettura di stimolare l’immaginazione (che è la spinta ad andare oltre i limiti di quello che ci è dato, del già visto o sentito) e di generare immedesimazione (ossia la capacità di entrare dentro un altro diverso, lontano, perfino opposto da noi)”. Per assurdo, un libro meno illustrato e facilitato non induce forse più sforzo e dunque allenamento alle capacità di immedesimazione e di immaginazione? Non rischia questo sconfinato panorama a disposizione di qualunque ragazzo abbia una connessione in rete di annullargli in pochi anni l’insieme del “non ancora dato, non ancora visto, non ancora sentito”?
L’approccio “commerciale” degli editori scolastici non è tanto più colpevole di quello esibito dagli stessi dirigenti scolastici, che oggi (in preda all’autonomia) istituiscono nelle loro scuole i corsi più disparati per poter accaparrarsi anche quell’anno il minimo di alunni per formare il minimo di classi ecc… ecc… Questo non l’ho mai capito. Le scuole italiane si fanno concorrenza anche senza essere private, si rubano gli allievi a vicenda, si studiano fra scuole vicine per capire come mai hanno preso tot iscrizioni più di noi, si arrovellano per capire come diventare più attraenti per le famiglie. In una scuola pubblica questo è per me inaccettabile, soprattutto nella misura in cui le scuole pubbliche italiane riescono a comportarsi da scuole private anche senza che lo Stato lo abbia chiesto: gli è venuto naturale! Anche qui stessa domanda: non è possibile che i presidi si possano dedicare alla qualità della loro scuola noncuranti del numero di iscrizioni? Perché un preside deve intristirsi se un ragazzo della sua città ha deciso di frequentare il vicino istituto professionale invece del suo liceo? Perché non si spezza mai il perverso legame (tipico del privato) fra compensi, numero di cattedre, numero di allievi, responsabilità, manovre di tutti i tipi per preservare questa o quella cattedra, questo o quel professore.
I più lucidi nell’analisi sono in genere quelli che da questa trasformazione sono tenuti a guadagnare, cioè gli editori: Andrea Chiaramonti, Amministratore Delegato Giunti Scuola: "Abbiamo quindi immaginato la scuola come sistema, una startup che deve essere aiutata per partire. I prodotti che mette a disposizione Microsoft possono aiutare la scuola a dialogare. Noi forniamo il registro elettronico che è un sistema di comunicazione scuola-famiglia e controllo attività". Più chiaro di così! Problemi di Marketing Scolastico? Ci pensa Microsoft! “Dal 2014 venderemo nelle scuole anche un pacchetto per gli insegnanti che comprenderà software e hardware. Un Acer V5, con pacchetto Microsoft Office 365 e la suite di programmi IES (Intel Education Software) e nostri contenuti. Tematiche per la didattica". Voilà!

08 Il triangolo Docenti-Famiglie-Allievi, la Società permea la Scuola.


Una delle cose che ho compreso lavorando a scuola è che, per quei termini di “simbiotica antitesi” fra Scuola e Società che ho illustrato prima, e seppure le distanze reciproche fra docenti, famiglie e alunni sembrano ogni volta allungarsi e restringersi istericamente, le tre componenti, come tre vertici di un triangolo, sono tutte ugualmente attori attivi e passivi, vittime e carnefici, causa ed effetto, variabili dipendenti e indipendenti della stessa funzione (visto che l’area del triangolo, cioè la densità sociale dell’istituzione scolastica, è sempre la stessa). È come quando i pedoni sbraitano a un’auto che non rispetta le strisce, salvo poi fare lo stesso quando entrano in macchina imprecando contro i pedoni.
Avrei sempre voglia di chiedere a ogni insegnante che frigna lamentandosi dei suoi allievi come vanno i suoi figli a scuola.
E ai genitori che imprecano contro i prof per ingiustizie inenarrabili nei confronti dei loro figli vorrei chiedere qualcosa di più sulla loro vita familiare, vorrei sapere quanto si confrontano davvero con i ragazzi o se piuttosto si limitino a timbrare ogni giorno il cartellino dei “Hai fatto i compiti? Questa casa non è un albergo!” eccetera.
E vorrei anche indagare meglio su quel senso di delega tout-court che i genitori assegnano alla scuola, salvo poi censurarne a suon di critiche e proteste i comportamenti, le strutture, le professionalità.
È il Triangolo Scolastico, quel turbine di interazioni reciproche, spesso violentissime, fra i tre punti nodali; è il fulcro multiposizionale che tiene continuamente in equilibrio un oggetto troppo pesante su un piccolissimo perno, con continui aggiustamenti, brusche correzioni, tutto per tenerlo, per quanto più possibile, fermo. I tre vertici sono ovviamente paritetici – anche troppo - eppure, in questo triangolo, c’è un vertice speciale, che non è discutibile, che non accetta mediazioni, un vertice che è inizio e fine della missione scolastica, anzi dirò della missione sociale. Il vertice è ovviamente quello degli aluni, che sono – per dirla moderna – i consumatori finali della Scuola, i clienti insomma. E a questi senz’altro la scuola deve rivolgersi non in senso pietoso e accomodante, con la serie di semplificazioni, agevolazioni, imboccamenti e facilitazioni di cui questa rivoluzione tecnologica sembra essere solo la copertura per celare ben altre magagne e mancanze. Bensì gli alunni, in quanto destinatari della nostra azione di insegnanti e/o di genitori, semplicemente si sono guadagnati l’aggettivo di “invariante”, o “invariabile”: cioè non si può pensare di cambiare i ragazzi con i metodi, né di poter accomodare con delle toppe quello che altrove è stato già violentemente strappato e sfilacciato.
Dunque a loro dobbiamo guardare, pensare e mirare, senza quel piagnisteo continuo che molti insegnanti – un po’ stanchi? – blaterano a ogni pié sospinto lamentandosi degli strani comportamenti (soprattutto quelli da “nativi”!) e attitudini dei loro allievi. A volte chiedo loro, provocatoriamente, se secondo loro un macellaio si lamenta della puzza di carne morta, o se un falegname impreca contro la segatura, o se un fioraio si duole del polline dei fiori. Più provocatoriamente: “perché insegni?”.


07 La situazione italiana


Parlar male della Scuola Italiana è davvero troppo facile e poco divertente. Piuttosto, in un momento così grave per la Scuola e per la Società intera, è un piacere scoprire che all’interno del corpo insegnante, ma anche fra i funzionari e i legislatori, il dibattito sulle soluzioni ai problemi è molto fitto, le posizioni sono – come sempre in Italia – molto lontane e molto energiche, e anche la sociologia della cosiddetta media education ha in Italia fior di studiosi e di appassionati. Fra i docenti per fortuna aumentano – lentamente! - i giovani, e così fra tante chiacchiere altisonanti, molti docenti fanno silenziosamente e faticosamente i loro gruppi Whatsapp con le loro classi, i blog dove postare gli esercizi, i gruppi Facebook su temi didattici e tecnici. Ci sono eccellenti esperienze on-line sia di singoli insegnanti che di gruppi; l’ultimo aggiornamento che mi pare utile segnalare è che si sta organizzando una “versione” italiana di EdModo.com, l’equivalente di Facebook per la scuola (chi arriverà prima al dominio della prossima e-school?, l’Open Source e gli insegnanti auto-organizzati oppure gli enormi Google & C. che già stanno regalando software alle scuole affinché si integrino nel gran calderone?). E anche in Italia ci sono tanti accesissimi sostenitori della spinta tecnologica alla didattica; scelgo fra questi di nuovo il prof. Paolo Maria Ferri, perché credo che in poche parole ci dia modo di capire cosa c’è in questa rivoluzione di tanto eccitante ed abbagliante da abdicare a qualsiasi forma di umanesimo nel nome di una - quasi marinettiana - fiducia sconfinata nel futuro. Al contempo, le sue cristalline convinzioni mi danno modo di mettere più in ordine tutte le mie obiezioni a riguardo!


Uno dei temi preferiti dai “futuristi” è l’eterogeneità che esisterebbe fra il mondo scolastico e il mondo in cui il ragazzo si trova effettivamente a vivere: “Il bambino (…) per andare a scuola, compie un viaggio nel tempo. Che è un po’ quello che è successo a noi quando abbiamo dovuto traghettare i nostri saperi e le nostre conoscenze dalla carta all’ambiente digitale. Questo viaggio del bambino è chiaramente un viaggio nel tempo.”
Benissimo: dunque come può un “immigrato” che ha avuto problemi a passare dalla carta al digitale aggiornarsi al punto tale da tenere il passo con gli scatenati e digitalissimi allievi? Non sarà che tutto questo gran problema di adattamento alle nuove didattiche e ai nuovi giovani sia in definitiva solo un problema di questa generazione di docenti, e quindi – in definitiva – assolutamente trascurabile rispetto al fatto che fra pochi anni il problema non esisterà più, e che invece ne esistono – di problemi – di molto più grandi e urgenti?


Ferri: “Noi abbiamo celebrato l’altro giorno il crollo del Muro di Berlino. Beh! Grossomodo è come se mio figlio dal 2009 si recasse a Berlino Est nel 1989. Nel senso che l’isomorfia tra i sistemi di rappresentazione del mondo col quale lui è a contatto, tra i sistemi di rappresentazione della conoscenza che mio figlio esperisce quotidianamente a casa non c’è più quando lui si reca in un’aula. Questo ha delle conseguenze rilevantissime”.
Assolutamente vero esimio professore ma, obietto, le conseguenze a cui si riferisce sono tutte positive per l’allievo! Capirei l’obiezione se si parlasse di una scuola Steineriana a Scampia, o di una scuola cattolica in Cina, ma mi duole constatare che – soprattutto nell’attuale frangente storico e socio-culturale in cui si trova l’Italia – è assolutamente positivo il fatto che la Scuola possa rappresentare oggi qualcosa di diverso dall’intricatissimo mondo esterno, e perché no anche di protettivo ma nel senso sociale del termine, e non didattico (“semplifichiamo”, “coloriamo”, “illuminiamo”, “usiamo le tecniche dello spettacolo, del videogame…”). Viva invece LA Scuola diversa, onorata e onorabile, “strana” perché latrice di tutto ciò che fuori si perde nella confusione! Viva una Scuola che fa trovare i ragazzi di fronte a qualcosa di strano, che forse non avranno mai più come l’oralità, il contatto fisico, la condivisione dello spazio (reale!), l’ammirazione e il rispetto non per l'insegnante per quello che sa e per quello che rappresenta!


Ancora Ferri: “Quello che dobbiamo fare è cominciare a tenere conto del fatto che per quelli che possiamo definire oggi “nativi digitali” alcuni strumenti che noi usiamo nel nostro lavoro, come la lezione frontale, stanno perdendo rilievo, perché l’apprendimento per assorbimento nei nativi digitali è qualcosa di molto meno consueto di quanto non lo sia l’apprendimento per ricerca, esplorazione e gioco.” Vero, ma cosa c’entra tutto ciò con la tecnologia? La Didattica della Ricerca esiste da decenni, e sappiamo benissimo che ogni alunno è un mondo nel quale l’insegnante deve giocoforza entrare e accomodarsi senza far troppo rumore, ma per far questo serviva la Rivoluzione Digitale?


Sarò deviato dalla mia materia, la matematica, ma la cosiddetta laboratorialità, la possibilità di applicare i ragazzi su problemi reali e farli lavorare secondo le linee del Recupero del Significato (vedi) o dell’approccio Affettivo (vedi), non è nata con il computer, né ne ha bisogno per svilupparsi. Si può lavorare tutti insieme con lavagna, penna e carta intorno a quesiti e operazioni (anche con il computer) che sviluppino le loro capacità di Problem Solving. Nessun dubbio sulle possibilità di farlo in modo iper-migliore con le NT, ma intanto gli insegnanti sanno farlo? Intendo dire con carta e penna: sono capaci di instaurare un rapporto affettivo che supporti il dialogo e la ricerca collettiva? Hanno i tempi, i modi, l’autonomia per svolgere un programma in questo modo, o devono piuttosto districarsi fra ore di 45 minuti, strutture fatiscenti e realtà sociali al limite del sopportabile?


Una sconclusionata e disordinata “corsa al tablet”, questa è l’idea italiana della Scuola 2.0, esempio classico il Registro Elettronico. Siamo talmente indietro rispetto al resto del mondo occidentale, che già nei primi paesi che affrontarono in modo più razionale e intelligente le nuove sfide si alzano voci critiche, si modificano alcuni aspetti della didattica 2.0 ritenuti troppo radicali, si reinseriscono metodologie e tipologie di materiali didattici troppo velocemente accantonate, si lavora sugli arredi, sulla formazione dei docenti, sull’idea stessa di scuola. Ci si è accorti che questa corsa sfrenata rischia di proporre ai giovani solo identità culturali in stile talent, sempre con quel “You” davanti e mai con “We”, o “Us”. Nelle scuole elementari norvegesi insegneranno agli scolari secondo le metodologie dei libri di testo russi, che si sono rivelate le migliori dopo una ricerca dell'Università norvegese di Stavanger sugli studenti che hanno studiato secondo la metodica russa. Secondo la ricerca la metodica russa si distingue per diversi compiti da quella norvegese e contribuisce ad un migliore sviluppo delle capacità di osservazione e analisi, utilizzando forme grafiche e tipologie di contenuti che sui piccoli allievi hanno infinitamente più successo di qualunque touchscreen.
Gli USA hanno invece scoperto la didattica della matematica delle scuole di Singapore, che lascia molto più spazio al ragionamento e alla deduzione. Senza tablet. Proprio dagli USA è tornato l’insegnante Corrado Poli, e da quanto è rimasto sconvolto ci ha scritto un libro, Rivoluzione a scuola. Come rendere felici e migliori insegnanti e allievi. Le differenze e le criticità che stigmatizza Poli non hanno niente a che vedere con la tecnologia o con l’informatica, bensì “con la rassegnazione dei colleghi docenti in fila per la firma di un contratto da precari e il degrado dell’edificio-capannone dove tutti si trovano ammassati, in un’afosa mattina di fine agosto (…) L’utilizzo di edifici più accoglienti e sicuri, l’abolizione delleclassi fisse, la riduzione dell’orario di lezione frontale e la proposta di un numero maggiore di attività extra-scolastiche (…) una professione che elevi l’insegnante da strumento audiovisivo a persona che porta qualcosa di sé nell’attività che svolge”. Come afferma il professor Gaetano Domenici, Università di Roma Tre: “la crescita della complessità delle ‘società tecnologicamente avanzate’ – o ‘dell’informazione’ – ha causato una diminuzione del grado di stabilità e d’impiego dei saperi trasmessi dalla scuola, ed ha accentuato il fenomeno di spaesamento che colpisce soprattutto chi è privo di quella cultura di base ormai necessaria per comprendere e partecipare consapevolmente al governo del cambiamento, sempre più rapido e continuo”.